Affitti che salgono, stipendi che… restano fermi. In Alto Adige la casa per alcuni è diventato un tormento: studenti costretti a cambiare di continuo stanza, giovani coppie con un tempo indeterminato che “non basta più”, nuovi arrivati che pagano di più per stare peggio. La domanda che risuona potrebbe essere: vogliamo città belle per pochi o quartieri vivibili per tutti?
Non è solo una questione di mercato. L’Onu parla di diritto a “un alloggio adeguato” come parte del diritto a una vita dignitosa. In poche parole, avere “una casa” non è un premio per i migliori, non è appannaggio di chi sta in Serie A, ma un diritto sacrosanto.
Eppure la percezione è che, senza eredità o qualche altro tipo di spintarella, il biglietto d’ingresso stia diventando proibitivo per i più.
I numeri, quando sono chiari, parlano. In Alto Adige, secondo Astat ed Eurac, più di una persona su tre dice che le spese abitative mettono in crisi il bilancio familiare: è il contesto quotidiano in cui si muovono studenti, giovani coppie, lavoratori stagionali e nuovi residenti. Secondo il portale Idealista, in Alto Adige servono 9,3 annualità di stipendio per acquistare casa; già nel vicino Trentino gli anni si abbassano a 6,5. È anche il motivo per cui tanti progetti di vita (figli, formazione) si decidono guardando prima la rata o il canone e solo dopo il resto. Nel 2024 si sono stati meno permessi di costruire e un crollo delle opere ultimate. Tradotto: arrivano meno case sul mercato, e quelle poche tengono i prezzi rigidi. E alti. Intanto, però, il turismo vola: 37,1 milioni di presenze nell’ultimo anno e un’intensità di 18,8 ospiti ogni 100 abitanti. Bene per l’economia, certo; ma gli appartamenti diventano terreno conteso.
Cosa fa la politica?
Edilizia sociale Ipes, convenzionata per il ceto medio, canoni calmierati per chi affitta lungo, qualche freno agli affitti turistici dove la pressione è più forte. Il punto, oggi, è far funzionare (e in fretta) ciò che già c’è. Anche perché l’idea che bastino incentivi o mutui agevolati a sistemare tutto è, da sola, illusoria. L’economista Mirco Tonin lo ha detto con chiarezza su salto.bz (4 novembre): se non cresce l’offerta, i sussidi tendono a spingere i prezzi e a favorire i proprietari; servono più case e un vero piano per l’affitto, non solo accordi con le banche.
Per chi riesce ad accendere un mutuo, gran parte della vita ruota attorno alla rata: lavoro il più stabile possibile, meno libertà di scegliere o cambiare, progetti familiari appesi. Ma quanto è sano un sistema in cui la casa decide tutto il resto?
C’è un pezzo dell’abitare che spesso non si vede: quello che unisce casa, salute e vicinato. Il progetto Genea Plus aveva puntato su questo. Oggi Reinhard Mahlknecht (Croce Bianca) ricorda due idee ancora importanti: i posti letto di cure intermedie (letti temporanei per chi non ha più bisogno di ospedale ma non è ancora pronto a stare da solo a casa) e uno studio medico dentro il quartiere. “Sono obiettivi che ora l’Azienda sanitaria realizza anche con il PNRR; nel nostro cronoprogramma sarebbero già dovuti essere attivi e oggi sarebbero urgentemente necessari”.
Intanto l’esperienza di Genea ha spostato l’attenzione lì dove viviamo: a casa. “Stiamo cambiando l’assistenza agli anziani che restano al domicilio: servizi che vengono a casa, orari flessibili, un telesoccorso più semplice e sicuro, accompagnamenti e visite di volontari”. Un esempio concreto è Vivacare, partito da poco.
In poche parole: se l’abitare è anche prendersi cura, servono luoghi di supporto vicino a casa e aiuti flessibili che arrivano a domicilio.
Vivere assieme con il cohousing
E l’abitare collaborativo? Teresa Pedretti, direttrice di Irecoop, riavvolge il nastro: “Nel 2017 qui si sperimentava un cohousing con giovani che, in cambio di un affitto molto basso, restituivano tempo al quartiere. Da allora le pratiche si sono moltiplicate in Europa, ma ogni territorio deve trovare la sua ricetta”. La cosa comune a tutte? “Politiche che ci credono davvero, che trattano la casa come una componente centrale della vita delle persone”. Gli ostacoli, nelle nostre province, non sono solo normativi: “Manca spesso il coraggio pubblico di studiare, provare e soprattutto monitorare le sperimentazioni. L’abitare è complesso: sociale, culturale, economico. Serve capire cosa migliorare, non limitarsi ad avviare e poi dimenticare”. E dal lato dei cittadini non aiuta la confusione delle parole: “Si parla di co-abitazione senza un linguaggio condiviso sulle forme e sugli obiettivi”.
Si può fare in città, a Bolzano o Merano? “Più che possibile, doveroso – dice Pedretti –. Non solo per i prezzi, ma perché troppi giovani se ne vanno. I fattori che trattengono sono sempre due: lavoro e casa. Il lavoro c’è; la casa rischia di diventare un’emergenza anche per i redditi medi”. Il ruolo della Provincia, in questo quadro, non è decorativo: avviare, supportare e monitorare “player” differenti (anziani, giovani, misti) senza confinare la coabitazione alla sola risposta all’emergenza.
E qui arriva il punto forse più concreto: “Quando le persone si candidano a coabitare sono individui soli; la prima necessità è costruire una comunità. Non credo alla sostenibilità nel tempo di progetti basati su valori astratti: coabitare è faticoso. Regge se c’è un obiettivo comune: crescere i figli con più servizi, dividere costi che da soli non si reggono, ottenere servizi specifici. La formazione serve se aiuta a definire scopi condivisi, non se resta teoria.”
Che cosa si potrebbe fare
Sul fronte “offerta”, dunque, l’orizzonte è duplice e molto pragmatico. Da un lato sbloccare alloggi a canone lungo con regole semplici perché senza case il resto è retorica. Dall’altro, attivare piccoli esperimenti di co-abitazione in immobili esistenti, dove i gruppi sono accompagnati davvero: se funziona, bene; se non funziona, si adatta. In mezzo, c’è l’ordinaria manutenzione: la rigenerazione urbana, per esempio. Dove anche gli spazi hanno bisogno di una conversione, di cura, per permettere al quartiere di appropriarsene. Forse la domanda giusta è ancora la più semplice: l’abitare è un privilegio o un diritto che vogliamo rendere veramente reale? Se scegliamo la seconda risposta, c’è da sperimentare, anche a costo di sbagliare, e guardare la città dagli occhi di chi sta ai margini.
Autore: Marco Valente