Don Gioele, il ritorno a casa (ma da straniero)

Attualità | 30/10/2025

Il telefono di don Gioele Salvaterra squilla almeno tre volte mentre parliamo. Segno che, anche se da poco arrivato, la sua agenda è già piena. Ma oggi non siamo più nella sua canonica di Merano. Siamo a Bolzano, accanto al Duomo, nella sua nuova casa, dove ci sediamo a chiacchierare “come ai vecchi tempi”. Ci conosciamo da quando era giovane diacono, e ci diamo del tu.

Don Gioele Salvaterra è tornato a casa, almeno sulla carta. Bolzanino di nascita, figlio di maestri (nel senso più pieno del termine), oggi è parroco “in solidum” della parrocchia del Duomo di Bolzano, parroco anche di San Giuseppe ai Piani e responsabile per la pastorale italiana di Rencio. Ma il ritorno non è stato una semplice rimpatriata: “In realtà non mi sono mai sentito un bolzanino doc – confessa con quel suo modo un po’ schivo, un po’ ironico – Non conoscevo la città nemmeno prima. Adesso è tutto nuovo. È come se fossi arrivato in un’altra terra”.

Quali sono le prime cose che hai notato?

Sono cambiate tante cose. Mi accorgo che tutto è diverso… anche perché lo guardo con occhi nuovi. Diciamo che prendo un po’ da ogni luogo dove sono stato: sono un po’ bolzanino, un po’ meranese, un po’ “bersabeo”, si può dire così.

Figlio di maestri: quanto ha inciso questo sul tuo modo di essere prete?

Tanto. Mio padre era maestro e anche “padre” nel senso pieno del termine, e quando Gesù dice “non chiamate nessuno maestro o padre sulla Terra”, io mi sono trovato in crisi… Non sapevo come rivolgermi a lui! Ma, battute a parte, credo di aver ereditato due cose: una particolare attenzione ai giovani, ai bambini, ai ragazzi, e l’idea che nessun contenuto sia troppo difficile. Bisogna solo saperlo dire bene, senza infantilizzare, ma nemmeno complicare.

Ora sei parroco “in solidum” del Duomo di Bolzano. Cosa significa esattamente?

È un’espressione giuridica che indica la presenza di due (o più) parroci per una stessa parrocchia. Da noi succede quando si tratta di comunità bilingui: in pratica ogni gruppo linguistico ha il proprio riferimento, ma si lavora insieme.

E non solo Duomo…

Esatto, oltre a Santa Maria Assunta (Duomo), sono anche parroco della parrocchia di San Giuseppe ai Piani e responsabile per la pastorale italiana a Rencio.

Dopo quattordici anni a Merano e cinque a Beersheva, in Terra Santa, cosa ti porti dietro?

Il senso della periferia. Sia Beersheva che Merano, anche se in modo diverso, sono luoghi che si percepiscono ai margini. E da lì lo sguardo cambia. Porti al centro quelli che sono ai bordi. Credo sia una delle eredità più forti di quelle esperienze.

E alcune esperienze concrete che vorresti portare qui?

La pastorale cittadina, l’esperienza dell’emporio solidale Tenda di Abramo, il team ecumenico… A Merano abbiamo costruito molto, anche grazie a un forte lavoro di squadra. Qui sarà diverso, è un contesto che sto ancora conoscendo, ma quegli ingredienti, relazioni, ascolto, apertura, sono importanti ovunque. Bisognerà capire come adattarli.

Come si costruisce una pastorale che tenga insieme italiano, tedesco e le tante lingue delle nuove cittadinanze?

Si parte dall’ascolto. Serve un orecchio (e un cuore) attento. Bisogna saper vedere le realtà più piccole, quelle che non fanno rumore. E trovare ciò che unisce, senza nascondere ciò che divide, ma avendo rispetto per entrambe le cose. Non è facile, ma è lì che si cresce insieme.

A due mesi dal tuo insediamento, che sfide vedi in questo territorio?

Le sfide non mancano: la diminuzione delle persone attive, la fatica nella pastorale giovanile, il dialogo ecumenico e interreligioso… ma anche un enorme potenziale, se si ha il coraggio di ripensare alcune cose.

Parliamo di ecumenismo: oggi dove vedi i passi più concreti?

A livello locale, senza troppi convegni. Nella cura condivisa dei poveri, nella custodia del creato, nella preghiera comune. La vera sfida è avere uno stile comune di pastorale, partendo da queste priorità.

(L’ecumenismo è il movimento volto a promuovere l’unità tra i cristiani appartenenti a Chiese e comunità ecclesiali diverse, attraverso il dialogo, la preghiera e la collaborazione concreta, ndr).

Fonderesti un team ecumenico diocesano?

Sì, sarebbe bello. L’esperienza fatta a Merano è stata molto significativa. Credo possa funzionare anche a livello provinciale, se ci si mette in ascolto e si lavora insieme su ciò che davvero conta.

I giovani cercano spiritualità ma faticano con le istituzioni. Tu come leggi questa distanza?

Il punto non è “riempire le chiese” di giovani, ma avere un rapporto autentico con loro. Ascoltarli davvero, senza volerli subito “incasellare”. Se si sentono accolti, ascoltati, rispettati, è già un passo enorme.

Il ruolo dei laici nella Chiesa: c’è una corresponsabilità vera o è solo di facciata?

Che sia corresponsabilità vera me lo auguro con tutto il cuore. Ma serve attenzione a non cadere nella clericalizzazione dei laici, come ha detto anche Papa Francesco. I laici hanno un ruolo centrale e fondamentale: devono essere valorizzati per ciò che sono, non trasformati in “brutte copie” dei preti.

Nel 2025 ha ancora senso parlare di “vocazioni”?

Sì, se capiamo che vocazione non vuol dire solo prete o suora. È ogni vita vissuta come risposta al bene, al servizio, alla volontà di Dio dentro la realtà. È fare bene ciò che ci è dato da fare. È porsi al servizio dell’umanità.

In questo momento, qual è il passo evangelico che ti “risuona” di più?

Quello della lavanda dei piedi. Dio che si fa ultimo. È lì che ci si incontra. E che si capisce cosa significa davvero servire. Poi che ci si riesca, è un altro discorso… ma il senso sta tutto lì.

Autore: Marco Valente

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