“Coaching”: assieme per il primo passo

Attualità | 26/6/2025

C’è chi lo associa a performance aziendali, chi a frasi motivazionali da palestra, chi ancora non ha ben capito se si tratti più di una moda o di una metodologia seria. Parliamo di coaching, un mondo tanto citato quanto spesso frainteso. Ma cosa significa davvero “fare coaching”? A spiegarlo è Christa Delmonego, presidente dell’Associazione Business & Managementcoaches da marzo 2025, ma prima ancora educatrice, streetworker, responsabile in comunità per minori, donna dalle molte vite professionali e dotata di una sola bussola: accompagnare le persone verso il loro prossimo passo.

Christa Delmonego, lei ha un percorso molto variegato. Come si è avvicinata al coaching?

È stato un percorso di ascolto e di incontro. Ho cominciato con all’interno del mondo dei centri giovani a Caldaro negli anni Novanta, un lavoro educativo molto libero, di relazione.

Poi ho fatto la streetworker a Innsbruck, con giovani fuori da ogni rete sociale. Lì ho imparato cosa significa esserci davvero per qualcuno, anche quando sembra che non ci sia nulla da fare. E più tardi, come responsabile al Kinderdorf, mi sono trovata accanto a bambini e ragazzi che avevano già vissuto più traumi di quanti noi ne vivremo in tutta la vita. Tutte queste esperienze mi hanno insegnato una cosa fondamentale: accompagnare non significa solo guidare, ma creare relazione, fiducia, ascolto profondo. E questo è anche il cuore del coaching.

Cos’è, in parole semplici, il coaching?

È un accompagnamento strutturato, orientato al futuro. Non si danno “consigli”, non si risolvono problemi al posto dell’altro, non si danno soluzioni preconfezionate. Si pongono domande, anche scomode, si fanno proposte, si visualizzano scenari. Si cerca insieme di capire: come ti senti? Cosa vuoi davvero? Qual è l’obiettivo di questo percorso? E quali passi concreti possiamo immaginare? Il coaching non ti dà risposte immediate, ma ti aiuta a rallentare, a mettere in “slow motion” ciò che ti succede, per vedere meglio. E, cosa importante, il coach si sceglie! Senza “feeling” non funziona.

C’è differenza tra coaching, consulenza e terapia?

Sono tre cose molto diverse, anche se possono avere punti di contatto. Il coaching è orientato al futuro e agli obiettivi, spesso in ambito lavorativo, anche se tocca pure aspetti personali. La terapia affronta tematiche profonde, traumatiche, esistenziali, che richiedono un altro tipo di sostegno. La consulenza, invece, fornisce soluzioni pratiche e strumenti tecnici. Talvolta, nel coaching, si possono offrire elementi di consulenza – per esempio, spiegare un modello comunicativo su cui lavorare – ma sempre al servizio di un obiettivo scelto dalla persona accompagnata.

Chi si rivolge al coaching? Serve solo ai manager?

Assolutamente no. Si rivolge a chi vuole fare chiarezza, cambiare qualcosa, sviluppare competenze, migliorare una situazione lavorativa o relazionale. Certo, spesso sono persone con responsabilità – leader, dirigenti, responsabili di team – ma può essere utile anche a singoli dipendenti, o a professionisti in cerca di nuovi input. Il coaching ti aiuta a capire dove sei, dove vuoi andare e come arrivarci. Anche nel mondo sociale o terapeutico, si lavora molto su questo confine tra supervisione e coaching, per accompagnare i team in modo più riflessivo.

Ci racconta un esempio concreto che aiuti a capire l’impatto del coaching?

Mi viene in mente il caso di un amministratore che aveva preso il posto di un predecessore molto stimato. Il team faceva resistenza, ogni proposta diventava un conflitto. Perfino gli orari di apertura degli uffici erano diventati terreno di scontro. In realtà, sotto quel tema si nascondevano paure, dinamiche irrisolte, relazioni congelate. Il coaching gli ha permesso di vedere tutto questo, di trovare strumenti per affrontarlo e, nel giro di pochi mesi, la situazione si è trasformata. La collaborazione è migliorata, le energie sprecate si sono ridotte. È stato un caso “da manuale”.

Nota delle particolarità nel modo di fare coaching qui in Alto Adige?

Sì, direi che ci sono alcune caratteristiche. La multiculturalità, il bilinguismo, ma anche una certa ritrosia culturale. In alcuni ambienti parlare dei propri problemi è ancora visto come un segno di debolezza. Il coaching, invece, richiede apertura, fiducia, disponibilità a mettersi in gioco. Come associazione, cerchiamo di sensibilizzare proprio su questo: il coaching non è una bacchetta magica, ma uno spazio protetto per esplorare possibilità.

Quali sono, secondo lei, i falsi miti più comuni da sfatare?

Che sia solo per chi ha problemi. Che sia una moda. Che basti un weekend per diventare coach. In realtà, servono anni di formazione, esperienza, lavoro su di sé. E poi: il coaching non è una formula pronta, ma un processo artigianale, cucito su misura. Non funziona se manca la volontà di cambiare. E non funziona se manca la fiducia.

Lei ora è presidente dell’associazione Business & Managementcoaches…

Esatto. È un ruolo che mi stimola molto, anche perché siamo un team nuovo e stiamo imparando a conoscerci. Stiamo riflettendo su come comunichiamo, su come collaboriamo e su come gestiamo eventuali conflitti. Accompagniamo persone e gruppi: non possiamo permetterci di predicare bene e razzolare male. Ci serve tempo per costruire fiducia anche al nostro interno, ma la mia speranza è che possiamo essere di esempio. Siamo in cinque, tutti volontari, e questo rende il lavoro ancora più prezioso.

C’è qualcosa di profondamente umano nel coaching, se praticato con cura: l’idea che nessuno debba cavarsela da solo, ma che ognuno possa trovare dentro di sé le risorse per crescere. Magari con uno sguardo esterno, capace di fare domande giuste al momento giusto.

Autore: Marco Valente

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