Edoardo e Martina hanno 24 anni, sono di Bolzano, e da due anni hanno fatto della loro passione un lavoro. Edo&Marti sono una giovane coppia che racconta il mondo da una prospettiva autentica, avventurosa e sempre nuova. Dopo aver costruito un van e girato l’Islanda, la loro ultima impresa li ha portati a percorrere tutta la Nuova Zelanda in bicicletta. 3000 km da nord a sud, in 40 giorni, senza mai aver davvero fatto ciclismo prima. Li abbiamo incontrati per farci raccontare questa avventura davvero fuori dall’ordinario.
Com’è nata l’idea di attraversare la Nuova Zelanda in bici?
Il viaggio in Nuova Zelanda in bici non è stata una nostra idea, almeno non completamente. Avevamo da tempo in testa l’idea di fare qualcosa in bici, ma non avevamo mai pedalato seriamente. Volevamo una nuova sfida, qualcosa che non avevamo ancora provato. Così abbiamo lanciato una specie di torneo tra le proposte più interessanti che ci erano arrivate dai nostri follower sui social. Le abbiamo selezionate, filtrate, messe ai voti. E ha vinto lei: la Nuova Zelanda. In bici. Da qual momento è cominciata la fase di preparazione, fatta più di entusiasmo che di vera pianificazione. Non eravamo ciclisti, e nemmeno amanti della bici nel senso classico. Ma eravamo affascinati dall’idea di attraversare un paese intero solo con la forza delle nostre gambe.
40 giorni, 3000 chilometri, 2 bici, zero esperienza… come avete fatto?
Siamo partiti da Cape Reinga, all’estremo nord, e abbiamo pedalato fino a Bluff, all’estremo sud. In totale, circa 3000 chilometri in 40 giorni. Non abbiamo mai avuto l’obiettivo della performance: niente tabelle, niente record. Solo la voglia di arrivare. In media facevamo 60 km al giorno, ma dipendeva molto dal terreno, dalle salite, dal vento.
E di salite ce n’erano parecchie. La Nuova Zelanda non è affatto piatta, soprattutto l’Isola del Nord, che ci ha fatto penare. Poi, arrivati più giù, abbiamo dovuto superare le Southern Alps. Gli ultimi giorni sono stati un concentrato di fatica, salita, freddo. Ma anche di emozioni. L’arrivo in cima all’ultimo passo è stato uno di quei momenti in cui tutto si allinea: la fatica, la soddisfazione, la vista davanti, la consapevolezza che il peggio era alle spalle. Ci siamo detti: “Da qui è solo discesa. Ce l’abbiamo fatta”.
Per dormire e per mangiare come vi siete organizzati?
Avevamo deciso fin dall’inizio di dormire sempre in tenda. All’inizio volevamo farlo in modo ancora più selvaggio, accampandoci ovunque. Ma dopo un paio di notti ci siamo resi conto che una doccia al giorno era fondamentale. Quindi abbiamo iniziato ad appoggiarci ai campeggi, pur mantenendo lo stile “essenziale”. Insomma: niente lusso, niente comfort, solo una tenda, due sacchi a pelo e un fornelletto. Mangiare era una sfida continua. La Nuova Zelanda è molto poco densamente popolata: ci sono lunghi tratti senza nulla, quindi dovevamo approfittare di ogni baracchino, ogni minimarket. Panini preconfezionati, Pie (le torte salate ripiene che si trovano ovunque), snack energetici. E tanta, tantissima acqua. Il problema dell’acqua è stato un qualcosa di molto reale: spesso eravamo nel nulla, e le borracce si svuotavano in fretta. Chiedevamo acqua alle fattorie, bussavamo alle case isolate. E per fortuna la gente era sempre gentile.
“È stato probabilmente il viaggio in cui abbiamo incontrato più persone interessanti. In bici è tutto diverso: ci si saluta, ci si ferma, si condivide il pane e la strada”
Che meteo avete trovato?
All’inizio il tempo era buono. Ma è durato poco. Appena arrivati nella West Coast è cambiato tutto: pioggia costante, umidità altissima, vento forte. Wellington, la capitale, è famosa per essere una delle città più ventose al mondo, e abbiamo capito perché. Quel giorno abbiamo pedalato con il vento contro per 50 km. A un certo punto ci è passato vicino il treno e ci è davvero venuta voglia di salirci su. Nella parte della foresta pluviale poi era tutto sempre bagnato: vestiti, tenda, sacchi a pelo. Non si asciugava mai nulla. Ogni giorno si ripartiva con addosso le cose umide del giorno prima. Ma questo è anche quello che ci ha fatto apprezzare il momento in cui il cielo si è finalmente aperto, nell’ultima settimana. Abbiamo tagliato l’ultimo traguardo sotto un cielo blu e limpido, dopo giorni di pioggia e nuvole. E sembrava quasi un regalo.
Come vi eravate attrezzati?
Viaggiare in bici vuol dire fare scelte. Noi avevamo solo il minimo indispensabile. Tutto leggero, tutto compattabile. Le bici erano due gravel in carbonio, con gomme tubeless: leggere, resistenti, perfette per le salite e per i tratti sterrati.
Le borse erano piccole, fissate al manubrio e alla sella. Niente portapacchi, niente ingombri. Avevamo giusto una maglia termica, una giacchetta leggera imbottita, un pile e una giacca a vento che ci ha salvato in mille occasioni, senza quella saremmo stati fradici dalla mattina alla sera.
Qual è stato il momento più bello del viaggio?
Ce ne sono stati tanti. Il più bello? Forse quando abbiamo attraversato per due giorni una foresta, percorrendo antichi sentieri Maori, attraversando ponti sospesi tra le valli, immersi nella natura più totale. Il secondo giorno è venuta giù una pioggia torrenziale, ci siamo sporcati di fango dalla testa ai piedi, ma è stato incredibile. Guardandolo ora, questo è uno dei ricordi più intensi. Incredibile è stato anche l’arrivo a Nelson, quando una ragazza neozelandese che ci seguiva su Instagram ci ha ospitati a casa sua. Ci ha fatto trovare Parmigiano Reggiano, pasta italiana, una cena calda e un letto vero. Dopo settimane in tenda è stato come entrare in un sogno. Ci ha portati a vedere il tramonto, ci ha fatto sentire a casa. Quel gesto di accoglienza, da perfetti sconosciuti, lo porteremo con noi per sempre. Un’altra cosa che ci è piaciuta molto sono stati gli incontri e il senso di comunità che la bici ci ha offerto. È stato probabilmente il viaggio in cui abbiamo incontrato più persone interessanti. In bici è tutto diverso: ci si saluta, ci si ferma, si condivide il pane e la strada.
Adesso che siete tornati a casa, quali sono gli obiettivi futuri?
In questo momento sentiamo che è il tempo giusto per guardarci un po’ attorno, per scoprire cosa c’è là fuori. Cerchiamo di stare il meno possibile fermi, non perché Bolzano non ci piaccia, ma perché siamo in una fase in cui vogliamo vedere, capire, esplorare. Se fossimo nati in un’altra città diremmo la stessa cosa: il punto non è scappare, è partire. È confrontarsi con altri luoghi, altre vite, altre idee. E magari, un giorno, trovare il posto giusto dove fermarsi. Per ora, però, vogliamo essere in movimento.
Autore: Niccolò Dametto