“Sei sempre davanti allo schermo. I videogiochi fanno male!” È un rimprovero che si sente spesso, sospeso tra il ricordo dei pomeriggi passati in cortile e la fatica di capire che cosa ci sia di così affascinante in un joystick o in uno smartphone. Per provare a orientarci tra paure e possibilità, si può partire dalla storia di Lorenzo Tondo. È cresciuto a Bolzano e, arrivato alla fine delle superiori, ha deciso di andare a studiare progettazione di videogiochi nei Paesi Bassi. Lì ha scoperto un mondo in cui il gioco non è solo intrattenimento, ma diventa anche strumento educativo, di formazione, perfino di prevenzione.
Una prima distinzione aiuta subito: il videogioco in sé non è né buono né cattivo. È uno strumento. Come un coltello da cucina: può servire a preparare il pranzo per la famiglia o può fare danni, se usato male o senza attenzione. Così il gioco digitale può diventare isolamento in camera per ore, ma può essere anche un modo per restare in contatto con gli altri, per misurarsi con sfide alla propria portata, per dare forma a emozioni difficili da dire a parole.
Qui entra in scena il gioco in generale, non solo quello digitale e per parlarne incontriamo un esperto, Piergiorgio Mandarano, docente di pediatria all’università di Bergamo. Mandarano sottolinea che il gioco è uno dei primi modi con cui una bambina o un bambino impara a staccarsi un po’ dalla madre senza sentirsi in pericolo. Il peluche, la bambola, la macchinina: sono piccoli “ponti” tra il mondo sicuro delle braccia dei genitori e tutto il resto. Nel gioco si può sperimentare, sbagliare, ricominciare. È una palestra in miniatura della vita reale.
Questa esperienza non riguarda solo i bambini. Capita a molte persone di mettersi a giocare a carte, a seguire un lavoro a maglia, a curare l’orto e accorgersi che il tempo è volato. La mente è concentrata, il resto del mondo si fa un po’ più lontano. Gli psicologi chiamano questa condizione “flusso”.
Per tanti ragazzi e ragazze, oggi, quel “flusso” passa dai videogiochi. Un gioco ben progettato chiede attenzione, fa fare tentativi, invita a riprovare. Non sempre questo è un male: sentire di “farcela”, passare un livello dopo vari tentativi, può rinforzare la fiducia in sé. Il problema nasce quando il gioco diventa l’unico posto in cui una persona si sente così.
Sei un tarassaco o un’orchidea? Nei suoi libri il professor Mandarano usa un’immagine semplice per spiegare quanto l’ambiente sia importante. Ci sono bambine e bambini che assomigliano ai fiori di tarassaco: crescono un po’ ovunque, si adattano, se un gioco li annoia o li mette a disagio smettono e passano ad altro. Altri invece somigliano alle orchidee: bellissime, ma molto sensibili a ciò che li circonda. In un clima confuso, aggressivo o troppo solitario, rischiano di soffrire molto di più degli altri; in un ambiente buono fioriscono in modo sorprendente.
Trasportato nel mondo del gioco, questo significa che per alcuni un videogioco poco sano è solo una parentesi; per altri può diventare una vera fuga dal resto. Ma vale anche il contrario: in un contesto positivo (un gioco cooperativo, per esempio) proprio i ragazzi più sensibili possono trovare un luogo sicuro in cui allenare le relazioni, la gestione delle emozioni, la capacità di affrontare piccoli fallimenti.
Non è un’idea astratta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, in alcuni programmi dedicati agli adolescenti, ha inserito attività basate sul gioco (in particolare il gioco di ruolo) per rafforzare le competenze emotive e sociali e per prevenire ansia e depressione. Giocare, quindi, è una parte della cura.
Resta una domanda concreta: come capire se il gioco sta facendo bene o male?
Un segnale rassicurantevien da lfatto che chi gioca mantiene altri pezzi importanti della propria giornata: va a scuola, vede amici, partecipa alle attività in famiglia, riesce a spegnere senza scatti di rabbia quando è ora di fare altro. In questo caso il gioco è una parte della vita, non il suo intero centro.
Diventano invece campanelli d’allarme le situazioni in cui la persona è quasi sempre chiusa in camera, salta i pasti, smette di interessarsi a cose che prima amava, si agita molto quando qualcuno chiede di interrompere il gioco. In questi casi può essere utile parlarne.
E il ruolo degli adulti? Il bolzanino di aodizione Lorenzo Tondo insiste su due parole: presenza e curiosità. Non serve diventare esperti di tecnologia, ma è prezioso fare domande, farsi spiegare che cosa si sta giocando, provare ogni tanto a guardare una partita o a partecipare addirittura. Altrettanto importante è fissare limiti chiari su tempi e modalità, come si fa con la televisione, il telefono o i dolci.
Il professor Mandarano dal canto suo ricorda che si impara più dagli errori che dai compiti perfetti. Il gioco, anche digitale, può essere una palestra in cui si perde, ci si arrabbia, ci si rialza e si riprova. L’importante è che intorno ci siano adulti che osservano, incoraggiano e, ogni tanto, ricordano che è ora di spegnere.
Prendere sul serio il gioco, in fondo, è un modo concreto per prendere sul serio la salute mentale: quella dei più giovani e anche un po’ la nostra.
Autore: Marco Valente