C’è un filo invisibile che unisce Napoli e Bolzano, il mare e le montagne, l’azzurro del Vesuvio e il verde dei laghi altoatesini. È il filo che attraversa la vita e la scrittura di Monica Attanasio, poetessa e operatrice sociale che porta la poesia nei luoghi dell’incontro e della fragilità. Le sue parole nascono dove il corpo e l’emozione si toccano, dove il reale si fa materia poetica.
Se ti dico “Napoli”, quali immagini ti arrivano per prime? E Bolzano?
Mi arriva il colore azzurro. Azzurro cielo, azzurro mare, azzurro come la squadra del Napoli, come il Vesuvio di giorno. È l’immagine che arriva prima di tutto: prima della mia famiglia, della musica che è ovunque, della luce del sole che gioca tra gli edifici e del rosso pompeiano. È il colore della mia città, che al tramonto si mescola ad altri toni intensi, infuocati, fino a “ciccarsi” nel mare fluo. Lì, l’azzurro finisce. Se invece dici Bolzano, penso al mio posto magico: il lago di Monticolo. Vivere vicino a quel lago mi rende serena. Né a Berlino né in Svizzera ho mai trovato un posto così caro.
Come descriveresti il tuo modo di fare poesia?
Mi piacciono le immagini, i profumi, la melodia delle parole. La mia poesia è flusso di coscienza, ma anche meditazione e contemplazione. Trovo poetico ciò che altri non immaginano: una fabbrica abbandonata, una spiaggia sporca, il gesto di pulire le gambe putrefatte di una donna senza dimora che si affida a un altro essere umano per la prima volta. È poetico quando qualcuno mi affida la propria storia: quello è il privilegio più grande.
Cosa succede nei tuoi laboratori di scrittura?
Dipende dalle persone che compongono il gruppo. Io mi sento una facilitatrice: osservo le dinamiche, i desideri, e da lì costruiamo insieme gli obiettivi. Con artisti stimolo il pensiero filosofico ed emotivo; con anziani e persone fragili risvegliamo ricordi; con adulti lavoriamo su emozioni e corpo per scrivere da un presente più lucido.
Napoli e Bolzano: cosa accade quando porti la stessa pratica in contesti così diversi?
Credo che nessuno di noi abbia ricevuto un’educazione alle emozioni. La società ci frammenta tra istinto e razionalità. A Napoli ho imparato i paradossi: è tutto magnifico e tutto una “cagata enorme”. Ti incanta e ti fa rabbia. Ma così siamo anche noi, pieni di contraddizioni. Lavorare tra Napoli e Bolzano mi aiuta a prendere le giuste misure, a pesare le parole, ad accogliere. Le persone, in fondo, sono uguali ovunque: cambia il contesto, non la sostanza del sentire.
Di cosa parlano le tue poesie oggi?
Parlano di storie invisibilizzate: senza dimora, sex worker, vittime di violenza. Parlano di natura, di boschi, di animali, di città amate e lasciate, di filosofia, amicizia, amori. In passato erano più introspettive, ascetiche, minimali. Oggi sono più incarnate, più vicine al mondo.
Cosa diresti alla Moni di vent’anni fa?
Le darei un grande abbraccio. Le direi che è leggiadra, e che cadute e abbandoni fanno parte della vita. Non tornerei indietro: ho lavorato tanto su di me per arrivare a questa consapevolezza. È un lavoro personale che continuerò finché potrò.
Autrice: Giulia Artemisia Buonerba COOLtour