Oggi vi proponiamo la cronaca dell’incontro tra una giovane bolzanina, Giulia, e Davide Gigli, un architetto che si diletta con l’arte: pittura, poesia e fotografia.
Davide Gigli mi apre il cancelletto con in mano un attrezzo da giardinaggio. Sorride, con quell’espressione disarmante che hanno solo le persone buone: quelle che tengono la porta aperta finché non è passato anche l’ultimo della fila, e lo fanno senza sbuffare, con un sincero “si figuri!”.
Mi accoglie in un giardinetto con divanetti e piante rampicanti (almeno credo, potrebbero anche essere solo molto determinate a crescere in verticale).
“Allora,” inizio, “l’artista Davide Gigli…”
“No no,” scuote la testa con vigore, “io non sono un artista.”
Do una rapida occhiata ai miei appunti: pittore, poeta, fotografo. Guardo lui. Guardo il succo che mi ha versato. Riguardo lui. Ascolto la sua storia.
Davide nasce a Bolzano ma cresce a Torino. Lì si iscrive ad Architettura, ed è lì che comincia a produrre le sue prime opere. “All’epoca non avevo ancora la corazza che ho oggi,” mi dice. “Ero molto trasparente. Sicuramente troppo ingenuo. Sono rimasto ferito dalle cattiverie umane: le bugie, le prese in giro, la competizione spietata. Ho avuto bisogno di buttare fuori tutto questo.”
Prima le poesie, poi i quadri: una specie di diario del disagio in codice visivo.
“Iniziavo buttando colore sulla tela, come Pollock,” racconta. “Era istintivo, come tutto in gioventù. Ma già quello mi faceva stare meglio.”
“Con il tempo è arrivata la costruzione dell’opera. Ma è rimasta l’urgenza. Quella è il motore di tutto.”
Davide è autodidatta. Non cerca il realismo, né la perfezione tecnica: “A me interessa trasmettere. È per questo che non mi definisco artista. Io creo per me, per affrontare quello che mi accade. Soprattutto le cose difficili. Poi, se qualcuno si commuove vedendo i miei lavori… beh, tanto meglio. Ma quello viene dopo.”
Quando sente questa urgenza, Davide scende in cantina. È lì che ha il suo studio. “Ti mostro!” esclama con entusiasmo.
Poso il bicchiere di succo (che nel frattempo è diventato il quarto, ma chi sta contando?) e lo seguo.
Lo studio è a pochi passi dal giardino. Una stanza compatta, densa, ordinata. A terra, un album di fotografie e uno di disegni. Sulla scrivania, una teca ad anelli mastodontica piena di poesie. Alle pareti, i suoi quadri. Mi viene in mente la camera blindata di Bellatrix Lestrange: tocchi una cosa e ne saltano fuori dieci (da Harry Potter ndr).
Guardando la teca gli chiedo quanto ci metta a scrivere una poesia.
“La poesia va presa al volo, sennò scappa,” risponde. “Dieci, quindici minuti al massimo. Poi la sistemo, ma il grosso è lì, in quell’istante.”
Prima di uscire mi confida che adesso sogna di esporre. Magari vendere qualcosa, partecipare a un concorso.
“Ma senza fretta,” aggiunge. “Tanto l’urgenza, quando arriva, mi trova sempre”.
Autrice: Giulia Artemisia Buonerba COOLtour