Il racconto “umano” di un direttore del carcere che tratta il carcere come casa sua. Questa è la trama del libro “Senza Sbarre”, scritto da Cosima Buccoliero, a lungo vicedirettrice e poi direttrice del carcere di Milano Bollate, ospite nei giorni scorsi di un incontro pubblico a Bolzano.
Quello del direttore di carcere può sembrare un lavoro che va svolto in maniera rigida, in cui freddezza e rigore sono i presupposti per avere la situazione sottomano. Eppure, l’approccio della protagonista della nostra intervista è un altro. Quando Buccoliero annunciò che gli ergastolani nel suo carcere hanno diritto a una cella singola, suscitò infatti molto stupore in chi crede che oltre le sbarre non ci debba essere più speranza. La chiave del suo lavoro? ospitalità e umanità. La prigione per lei è un microcosmo di vita.
Ci sono i prigionieri, il personale di sorveglianza e il personale medico, oltre a numerosi volontari. E le loro famiglie. La reclusione deve essere finalizzata al reinserimento nella società e non solamente una punizione. La detenzione non deve perdere la sua funzione educativa, altrimenti diventerà solo una forma di tortura.
E libro di Biccoliero spiega il perché.
“Prigione senza sbarre”. Utopia?
Le sbarre non si possono eliminare, questo è certo. Ma nella mia mente il carcere cerca respiro e contatto con il mondo esterno. è aperto e comunica con la città.
Uno scambio complesso. Qual è la difficoltà maggiore?
Il pregiudizio è sicuramente la difficoltà maggiore, bisogna lavorare affinché le persone non pensino che dietro le sbarre ci sono i “cattivi” e fuori i “buoni”. Un reato non coincide quasi mai con la totalità della persona.
Come si traduce tutto questo nella pratica?
Acquisire una migliore comprensione della realtà carceraria, del personale e dei detenuti. Chiunque stia scontando una pena detentiva prima o poi verrà rilasciato e dovrà essere accolto. Ecco, questo processo di benvenuto deve iniziare molto prima. Bisogna fornire ai detenuti una “cassetta degli attrezzi” per reintegrarsi e ricostruirsi.
All’interno del suo libro, lei racconta la sua esperienza al carcere di Bollate, a Milano. Cosa le ha lasciato?
A Bollate sono stata 16 anni, prima come vice e poi come direttrice. Mi ha dimostrato che questo modo di intendere il carcere è un modo che paga, affinché la detenzione non sia inutile. Un grandissimo esempio è quello di Stefani, una giovane ragazza che si è laureata dietro le sbarre: l’incontro con l’università e i docenti hanno fatto la differenza nella sua vita. All’esterno, forse, sarebbe stato più difficile riscattarsi.
Il riscatto è possibile per tutti?
Sì, alcune situazioni sono più difficili, ma non impossibili. Come dice la legge, a ciascuno serve un trattamento personalizzato. A volte siamo impreparati ad affrontare certe situazioni, non sappiamo come fare.
“Senza sbarre” è il suo primo libro. Cosa l’ha spinta a scriverlo? Cosa vuole trasmettere?
Spesso ci si ritrova a parlare di lavoro con i colleghi. Io volevo raccontare il carcere non solo agli addetti ai lavori, che già sanno, ma a chi questa realtà non la conosce. E raccontare che un modello di carcere, diverso da quello che si vede in televisione, è possibile. Bisogna incidere sulle relazioni con i detenuti. In carcere non c’è il male assoluto. C’è chi ha sbagliato e ha il diritto di essere recuperato.
Questo libro descrive come le carceri possono e devono diventare parte integrante della comunità in ogni suo aspetto è un libro che ispira riflessione e indica un percorso concreto non solo dal punto di vista della gestione carceraria ma anche dal punto di vista etico-personale. Un’opera condivisa fa sì che l’esperienza personale dell’autore non sia più un caso isolato.
Si tratta quindi di un libro importante che affronta un tema scottante che tocca profondamente la sensibilità dei cittadini in modo inedito.
Autore: Niccolò Dametto