L’avevamo già intervistato nel dicembre del 2020, quando, dottorando in Information Technology al Politecnico di Milano, stava lavorando a Emoty: un’intelligenza artificiale che potesse favorire l’inclusione di persone con disturbi del neurosviluppo. Due anni dopo, ritroviamo Fabio Catania negli Stati Uniti, al prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, dove sta proseguendo la sua ricerca con un nuovo progetto, a proposito del quale gli abbiamo fatto qualche domanda.
In cosa consiste il tuo lavoro?
Durante il dottorato ho iniziato a occuparmi dei cosiddetti “agenti vocali”, ovvero intelligenze artificiali che supportino, a livello conversazionale, le persone con disturbi del neurosviluppo e i loro terapeuti. Questo lavoro mi ha fatto appassionare di analisi della voce, ovvero di tutto ciò che riguarda i suoni che emettiamo quando parliamo, al di là del contenuto di ciò che diciamo. Concluso il dottorato, sono stato preso come Postdoctoral Researcher al MIT di Boston. Il progetto a cui sto lavorando qui riguarda l’autismo non verbale, una forma di autismo per la quale le persone non producono frasi o parole, ma solo vocalizzazioni che potrebbero sembrare prive di contenuto. In realtà, però, i famigliari e i terapeuti, col tempo, riescono a comprendere il significato di queste vocalizzazioni; quello che stiamo facendo noi, perciò, è analizzarle nel tentativo di capire cosa le caratterizza per provare a realizzare una sorta di traduttore digitale.
Com’è stato trasferirsi negli Stati Uniti?
Dal punto di vista lavorativo, un’esperienza incredibile. Purtroppo, le Università e i laboratori di ricerca in Italia non hanno a disposizione i budget che hanno negli Stati Uniti, e questo implica un’enorme differenza in termini di infrastrutture, strumentazioni e, in generale, di possibilità. Basti pensare che qui i ricercatori fanno solo i ricercatori: non devono preoccuparsi anche di altre questioni, come per esempio pensare a progetti per riuscire a vincere i fondi necessari per fare ricerca.
E al di là del lavoro?
Anche se ormai sono a Boston da diversi mesi, mi sembra ancora tutto nuovo. Benché abbia vissuto sia in Germania che in Spagna, non avevo mai avuto la sensazione così chiara di non essere in Italia. La prima cosa che noti, quando arrivi qui, è che è tutto gigantesco: il latte lo compri in taniche da più di tre litri, e poi ti trovi a cercare su Google ricette che ti permettano di usarlo prima che vada a male. Se vogliamo restare in tema colazione, lo stesso vale per i cereali: li vendono in confezioni così grandi che non ci stanno nella dispensa. A parte il cibo, le cose che mi hanno fatto sentire più spaesato finora sono le festività e gli orari. Per quanto riguarda le prime, non conoscendole, mi è capitato di venire in ufficio per poi scoprire che era un giorno di festa nazionale – immagina uno che va al lavoro a Natale perché non sa che è Natale: è piuttosto divertente. A proposito degli orari, invece, se vai in discoteca al massimo all’una spengono tutto, e non è raro cenare alle cinque e mezza o alle sei. È vero che anche in Alto Adige si mangia presto, ma la mia famiglia ha pur sempre origini calabresi (ride, ndr).
È arrivato il momento della classica domanda: cosa pensi di fare in futuro?
Il mio contratto qui dura un anno, anche se spero (e pare sia così) che ci sia la possibilità di restare di più. Tuttavia, mi piacerebbe tornare in Italia, un giorno. Essere al MIT è davvero un onore, la selezione all’ingresso è durissima e non mi sono ancora abituato a incrociare in mensa premi Nobel o a chiacchierare con colleghi che stanno lavorando con Noam Chomsky, ma non posso fingere di non sentire la lontananza dalla mia famiglia e dai miei amici.
Autore: Alex Piovan COOLtour