Personaggio eclettico, Benno Simma è conosciuto in città per i suoi molteplici interessi che spaziano dalla musica (suonata), alla pittura e all’illustrazione. Negli anni è stato architetto e docente di design presso diverse università. A Bolzano ha diretto, dal 1997 al 2003, l’Accademia di Design, l’ente precursore di quella che con l’Università di Bolzano sarebbe divenuta la Facoltà di Design e Arti. Nel 2005 si è trasferito per quattro anni a Roma dove ha diretto lo IED, l’Istituto Europeo di Design. Benno Simma ha da poco trasferito il suo quartier generale dal Kampill Center della zona Siberia, in via Cesare Battisti, dove ha creato il suo nuovo atelier.
È obiettivamente difficile tracciare una scheda su di te, sul percorso che ti ha portato ad essere quello che sei oggi.
Sono nato nel 1948, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quindi con alcuni elementi tipici della guerra ancora da qualche parte nella testa.
Ho studiato architettura all’Università IUAV di Venezia, però dopo il diploma mi sono dedicato ad altri mestieri. Dopo l’università ho fatto il sindacalista dei chimici alla UIL, una esperienza che per me è stata molto positiva, perché in qualche modo ho imparato a parlare di problemi di lavoro davanti a tanta gente e a prendermene cura. Però dovevo cominciare anche a fare qualcosa che avesse una affinità con gli studi, ed ho intrapreso la carriera di architetto. Ho aperto uno studio, con un socio, ma ho presto notato che l’attività creativa è condizionata tantissimo da fattori esterni: il comune, la concessione edilizia, la burocrazia. Mi sentivo estremamente a disagio, e così ho deciso di cambiare settore, una cosa che ho fatto spesso. È come entrare in una casa disabitata. Hai la possibilità di percorrere un corridoio e dare uno sguardo dentro alle stanze. Entri, ne esplori una, ma poi prosegui ed esplori quelle successive. In fondo è questo il bello, puoi percorrere un corridoio ed aprire tante stanze, finché ce la fai.
Dopo l’esperienza come architetto, mi sono appassionato alla grafica. Parallelamente a queste attività ho sempre curato la musica, a livello amatoriale. Una delle mie prime esperienze musicali l’ho avuta nel Nuovo Canzoniere Veneto nel quale mi occupavo di canzoni popolari. Poi, in una fase più politica, ho cominciato a scrivere canzoni e a musicarle e alla fine sono approdato al jazz. Ho conosciuto Michl Lösch e Helga Plankensteiner. Loro mi hanno spiegato cosa è il jazz. Da lì a breve ho conosciuto Paolo Fresu, con cui ho cominciato a collaborare, realizzando diverse copertine per la sua etichetta discografica, la Tuk Music.
Parliamo di luoghi: ora hai un piccolo atelier in via Cesare Battisti, prima eri in uno spazio più grande al Kampill Center.
Il Kampill Center era un po’ fuori mano, oltre che essere nella zona comunemente chiamata Siberia: una zona della città particolarmente fredda, anche dal punto di vista dei rapporti sociali. Lì non ci andava nessuno se non per lavorare. Visto che c’era il parcheggio sul tetto, capitava di invitare altri musicisti a suonare in un orario in cui non si disturbava nessuno: gli uffici erano chiusi e anche la radio presente nel palazzo aveva terminato la programmazione in diretta.
Adesso sono approdato qui in Via Cesare Battisti: sto lavorando da vecchio pensionato seguendo le mie passioni, che ruotano intorno al disegno, al dipingere. Chi vuole venire a trovarmi mi trova in questo bugigattolo contornato dai miei quadri.
Parlaci della pittura…
Se uno ha troppa abitudine a seguire tutti i suoi interessi, tutte le sue passioni, finisce per fare tante cose, con il rischio di farle un po’ superficialmente. In passato è successo anche a me. Ma ora mi trovo più concentrato su di una cosa sola e devo dire che ne traggo più piacere. Così mi perfeziono: se mi viene in mente un’idea, cerco di inseguirla e poi di realizzarla. Con più caparbietà di una volta. Un tempo l’atteggiamento era più giocoso.
Sei architetto, designer, musicista, cantante, autore di canzoni, artista visivo. Qual è il filo conduttore tra le diverse identità creative?
Il filo conduttore è il gioco, la voglia di giocare con fantasia, nelle diverse combinazioni. Ognuno ha nella propria testa un archivio di immagini, di suoni, di oggetti che cerca di combinare, almeno nel gioco. Adesso sono arrivato in questa fase.
Hai una spiegazione del perché tu sia approdato al visivo, almeno prevalentemente?
Il visivo per me è legato all’esperienza manuale, anche se il disegno o il dipingere in realtà ne è solo una parte; ma è un’attività manuale che parte dal cervello/pensiero ed approda nel gesto, nel braccio. In fondo è artigianato, la si può vedere anche così…
Hai sempre vissuto a contatto con diverse culture. Come vedi la Bolzano del futuro?
In generale il Sudtirolo per me è un’idea o una configurazione di idee. Alla fine il Sudtirolo è come la gente lo vuole e lo vive. C’è una differenza tra quella che è la realtà dei fatti, e come qualcuno immagina che debba essere. Io ormai con gli anni sono approdato ad un realismo terra-terra. Per me il Sudtirolo è sopravvalutato. Seguirei di più il modo quotidiano con cui la gente vive questa terra. Un modo non poi tanto problematico.
Io ormai conosco tantissimi che parlano sia il tedesco che l’italiano. Quindi sinceramente chi vuole vive in pieno il Sudtirolo, e chi non vuole, lo vive solo parzialmente, guardandolo dalla lente o italiana o tedesca o ladina, anche se però ha sempre bisogno di tre lenti. in ogni caso io ci vivo bene.
Hai una visione molto distaccata ed ironica della realtà. Pensi che la politica e la cultura in provincia di Bolzano necessitino di maggiore umorismo, ironia, satira?
Si, sicuramente. Molto di più. L’ironia e la satira ti danno la distanza. In tedesco esiste un termine, Nabelschau, il guardarsi l’ombelico, che è la caratteristica fondamentale nel Sudtirolo, un po’ di tutti i gruppi linguistici. La satira ti permette di avere un punto di osservazione delle cose più distanziato.
Autore: Till Antonio Mola