Durante la sua lunga carriera ha scalato le vette più alte del mondo, affrontato condizioni estreme e sfidato i propri limiti. Eppure, nel racconto delle prime escursioni da bambino o del piacere di un tramonto in quota, si percepisce un’emozione genuina, che ne restituisce tutta l’umanità. Alpinista, esploratore, pilota di elicotteri da soccorso, Simone Moro è anche un testimone dei cambiamenti nei modi di intendere alpinismo. Recentemente incantato la cittadinanza di Egna durante una serata pubblica organizzata dal Cai.
// Di Daniele Bebber
Simone Moro, come ha scoperto la montagna?
Tutto è cominciato con le vacanze in famiglia. Una volta si alternava tra mare e montagna. Noi facevamo campeggio e andavamo a camminare, ma a un certo punto io, i miei fratelli e mio padre ci siamo un po’ stufati delle solite escursioni. Così abbiamo iniziato con qualcosa di “diverso”: le ferrate. I miei fratelli si sono fermati lì. Io, invece, ho sentito scattare qualcosa. Avevo sette, forse otto anni. Le prime arrampicate vere le ho fatte a 13 anni su una parete di roccia a Bergamo. È stato un percorso lento, graduale, molto diverso da quello che vedo oggi in tanti ragazzi che bruciano le tappe.
L’alpinismo cosa le ha dato?
Un contatto profondo con la natura. La mia è una passione che nasce anche dalla contemplazione della bellezza della montagna, dei suoi odori, della luce all’alba o al tramonto. Questo imprinting non è solo sportivo, ma anche sensoriale e spirituale. Ancora oggi, al di là del risultato tecnico, è questo ciò che mi spinge a tornare in quota.
Che legame ha con l’Alto Adige?
Sono nato a Bergamo, però ho sempre gravitato intorno a queste montagne. Una delle prime guide ferrate che ho comprato era sulle Dolomiti. Poi, con il tempo, il legame con l’Alto Adige si è rafforzato. Reinhold Messner, ad esempio, è stato il mio mentore spirituale. Leggevo i suoi libri, andavo alle sue conferenze e sognavo di diventare come lui. Ora siamo amici. Poi c’è la mia ex moglie, altoatesina, con cui ho un figlio che vive a Ora. Ogni settimana torno lì per lui. Un pezzo del mio cuore è rimasto tra queste montagne.
Ci vuole raccontare le esperienze sugli 8.000?
Salire un 8.000 non è tecnicamente più difficile che scalare Cervino o Monte Bianco. La differenza è nell’altitudine: sono montange il doppio più alte. Lì capisci davvero cosa vuol dire avere dei limiti fisici. Il ritmo è lento, ogni passo va dosato, devi calcolare bene il tempo, perché tornare indietro è spesso la parte più delicata. È un gioco di resistenza, lucidità, autocontrollo.
Lei è anche pilota di elicotteri. C’è un filo che unisce volo e alpinismo?
Sì, c’è una profonda affinità mentale. L’elicotterismo, soprattutto quello d’alta quota, richiede la stessa capacità di prendere decisioni sotto pressione, di controllare le emozioni, di leggere l’ambiente. Io mi sono specializzato proprio nei voli di soccorso in quota e l’esperienza in montagna mi aiuta tantissimo.
Com’è cambiato l’alpinismo rispetto a quando ha iniziato?
Tantissimo: dal 1992 al 2025 ho visto trasformarsi il modo di vivere e raccontare la montagna. Gli 8.000 oggi sono diventati meta di turismo organizzato. Molti salgono solo grazie a guide e ossigeno supplementare, senza sapere nulla della storia dell’alpinismo. Il 95% sono clienti, non alpinisti. I veri appassionati oggi sono una piccola minoranza.
Quali sono stati gli incontri più importanti per lei?
Reinhold Messner è sicuramente la figura più significativa. Non è mai stato un maestro, ma un mentore. Quello vero, però, è stato Anatoli Boukreev, un alpinista russo eccezionale con cui ho condiviso spedizioni e momenti difficilissimi. È morto durante una missione invernale sull’Annapurna. Poi ho conosciuto anche Hans Kammerlander e altri grandi nomi.
Con Tamara Lunger ha condiviso momenti forti. Ci può raccontare?
Tamara l’ho conosciuta quando era ancora giovanissima; era allieva della mia ex compagna, che insegnava educazione fisica. Già allora colpiva per resistenza e forza. Al ballo di maturità mi disse che sognava l’Himalaya. Ho capito subito che aveva stoffa. Le ho fatto da guida, poi ha fatto la sua strada. In una spedizione invernale, camminavamo legati in cordata. A un certo punto, mentre stava finendo la corda, sono precipitato in un crepaccio. Lei non ha avuto nemmeno il tempo di mettersi in posizione, ma ha avuto la prontezza d’afferrare la corda e attutire il colpo. È stato un momento drammatico, ma ne siamo usciti.
Cosa consiglierebbe a un giovane che vuole diventare alpinista?
Che non servono né sponsor né soldi per cominciare. Serve visione e amore per l’esplorazione. Sulle Dolomiti sono ancora tantissime le pareti non scalate. Non serve inseguire per forza gli 8.000. Prima delle grandi imprese ci sono quelle piccole: e sono fondamentali. L’alpinismo è un’arte che si impara con tempo, pazienza e capacità di rinunciare. La montagna non perdona chi vuole bruciare le tappe ad ogni costo.
Autore: Daniele Bebber