Le sue opere non passano inosservate e raccontano storie che in grado di adeguarsi al contesto in cui vengono raccontate e quindi dipinte. Il percorso artistico di Egeon – giovane street artist altoatesino, dal Perù a Roma, da Bressanone a Bolzano – è costellato di successi che lo hanno aiutato a crescere professionalmente. Perché, come lui stesso spiega “l’arte è un percorso lungo e difficile, ma è l’unico modo per realizzare qualcosa di vero”.
Egeon, come si è avvicinato al mondo dell’arte?
È un mondo che mi interessa da sempre, è qualcosa che risuona dentro di me, un’esigenza… un po’ il mio tutto.
Ha studiato arte da ragazzo?
Ho studiato all’istituto d’arte Vittoria a Trento, poi ho scelto e trovato la mia via.
Quante opere d’arte ha realizzato finora?
Non ne ho idea, ma tante, e le rifarei quasi tutte. Però se devo scegliere, quella che che mi è rimasta di più nel cuore è stata la mostra all’Orto Botanico di Roma: un progetto complesso, forse la mia opera migliore.
Che cosa voleva comunicare?
È difficile da spiegare. Ogni mia opera ha un significato che cambia, dipende dal contesto e dalle persone che la vivono. Non voglio imporre un messaggio preciso, ma piuttosto offrire uno spazio di riflessione.
Come è nato il progetto a Roma?
È un progetto che mi ha proposto l’associazione culturale Somma Vesuviana Tramandars. Avevo già preso contatti con loro qualche anno prima, e insieme alla Fao abbiamo deciso di allestirla in una serra dell’Orto Botanico di Roma, dove ho esposto dipinti, ceramiche e dei “bio hard disk”.
Qual è la giornata tipo di un artista?
Non ne ho una, purtroppo. Non sono molto regolare, dipende da cosa devo fare. Non è un lavoro che si può pianificare come una routine, dipende sempre dal contesto e dal tipo di lavoro che si deve eseguire.
Parlando delle sue opere murali, si è ispirato a qualcuno in particolare?
È semplicemente un processo di contaminazione, a volte si prende spunto da ciò che ci circonda. Tutto dipende dal contesto, dalle circostanze in cui si crea un’opera, è questo che ispira.
Quando realizza un murales, dipinge in base al contesto in cui si trova?
Sì, il contesto è fondamentale, ogni opera che realizzo, soprattutto quelle murali, è influenzata dal luogo. La mostra di Roma, ad esempio, non è stata pensata per una galleria, ma per una serra, e quell’ambiente richiedeva struttura e progettazione diverse.
Ha mai avuto difficoltà ad ottenere i permessi per fare murales?
Se è un lavoro commissionato da un privato normalmente non ci sono problemi. Quando sono andato a dipingere il murale in via Roen a Bolzano, però, ci sono stati alcuni rallentamenti: è un muro in una zona altamente popolata, quindi c’è stata un po’ di resistenza da parte dei residenti locali. Ma sono cose che succedono.
Normalmente la contattano o propone lei dei progetti?
Dipende. A volte sono io a proporre i progetti, altre volte mi contattano. È un po’ come in tutti i settori. A volte un progetto nasce da una mia iniziativa, altre volte c’è una richiesta diretta.
Lei ha avuto parecchie esperienze artistiche che all’estero. Qual è il posto che le è rimasto nel cuore?
Cuba è un’isola che mi piace molto. Ma anche le Isole Faroe in Danimarca, recentemente, mi hanno lasciato molto: sono isole piuttosto crude, con un clima nordico che mi affascina. Ci sono andato per vacanza, ma anche quando sono in ferie cerco sempre di dipingere, e lì ho trovato parecchio materiale per ispirarmi.
Quanto la supporta la famiglia in questo percorso?
Molto. All’inizio ero indeciso tra l’arte e la fisioterapia, ma i miei genitori hanno sempre creduto in me e mi hanno dato molta fiducia. Senza il loro supporto non sarei arrivato dove sono oggi.
Cosa direbbe ai giovani che vogliono intraprendere un percorso simile al suo?
Una volta ho incontrato Sean Scully, uno dei pittori più importanti al mondo e mi ha detto che per fare l’artista prima di tutto bisogna credere nella propria ricerca. È un messaggio che riporto ai giovani, perché l’arte è un percorso lungo e difficile, ma è l’unico modo per realizzare qualcosa di vero.
Autore: Daniele Bebber