Iniziamo la nostra miniserie di incontri con gli “algorimi”, che abbiamo introdotto nello scorso numero del giornale, tornando all’esempio dei trasferimenti dei docenti anche molto lontanato da casa. Il Tar del Lazio si è pronunciato sull’evento, accaduto ormai 5 anni fa, dicendo che “l’algoritmo impazzito fu contro la Costituzione” (Repubblica, 17/09/2019). Cerchiamo quindi innanzitutto di capire cosa sia effettivamente un algoritmo. L’etimologia della parola ci arriva dal nome del matematico arabo al-Khwarizmi, vissuto nell’VIII secolo d.C. A lui si deve la definizione di metodi per risolvere equazioni, descritti con sequenze di istruzioni semplici che, se eseguite alla lettera passo per passo, prendono in ingresso un’equazione e producono in uscita la soluzione. Questa idea di una “chiara sequenza di istruzioni per trasformare un input in un output” è alla base del concetto stesso di algoritmo così come lo intendiamo ancora oggi, e mostra un chiaro collegamento tra matematica e informatica: se abbiamo una chiara sequenza di istruzioni, possiamo “codificarla” in un opportuno linguaggio di programmazione e farla così eseguire al calcolatore.
Se un algoritmo non è quindi altro che un “procedimento sistematico di calcolo, oggi per lo più destinato a essere eseguito da un automa esecutore quale un computer” (treccani.it), come è possibile anche solo pensare che un algoritmo possa impazzire? La risposta è semplice: gli algoritmi non impazziscono. L’algoritmo di allocazione dei docenti ai posti disponibili è “impazzito” perché, in effetti, non è stato definito correttamente, ed è stato applicato su dati dei docenti incompleti o addirittura incorretti. Ovviamente un algoritmo definito impropriamente e chiamato a produrre un risultato su dati sbagliati non può che dare risultati insoddisfacenti. Portiamo quindi a casa un primo, chiaro messaggio: invece di parlare della “pazzia degli algoritmi”, dovremmo forse concentrarci sula “(in)competenza delle persone”.