La speranza, nei volti e nelle storie in terapia intensiva

Attualità | 22/4/2021

Il fotografo e documentarista di Salorno Andrea Pizzini racconta i sei mesi trascorsi in rianimazione a Bolzano, passati a incontrare pazienti e sanitari, con lo scopo di raccontare le loro storie di sostegno e ritorno alla vita. 

Raccontare la pandemia, con scrupolo giornalistico ma allo stesso tempo identificando e valorizzando i motivi di speranza che in questi 13 mesi sono germogliati numerosi, anche dalle storie più tristi e dolorose. 
Questo è il compito – difficilissimo – che molti di noi giornalisti si sono posti durante l’emergenza Coronavirus, un’esperienza davvero inedita  e fuori dagli schemi. Uno dei pochi a essere riusciti in questo intento, a nostro avviso, è il documentarista e fotografo di Salorno Andrea Pizzini che – tornato la scorsa estate dal Belgio dove aveva vissuto per dieci anni – ha scelto di “trasferirsi” nel reparto di terapia intensiva covid dell’Ospedale di Bolzano. Lo scopo? Raccontare dall’interno il dramma – reale,  al di là delle peggiori fake news – dei malati ma anche e soprattutto la gioia dei ritorno alla vita dei guariti. E anche il fondamentale lavoro dei sanitari in prima linea. 

Il volto di un’infermiera in terapia intensiva a Bolzano

L’INTERVISTA

Com’è nato il progetto Wellenbrecher?
Nella scorsa estate sono tornato dal Belgio, dove ho vissuto 10 anni, e sono arrivato a Merano, dove ho un’amica infermiera che lavora in terapia intensiva. Lei mi ha raccontato delle varie fake news che giravano e dopo un po’, in ottobre, ho pensato di visitare il reparto per fare delle foto e raccontare il suo lavoro. Ho pensato che in questo modo la gente poteva vedere un po’ sui social quello che succede veramente. Non sapevo se mi avrebbero dato il permesso per entrare. 

Beh, accedere in qualità di fotografo in una terapia intensiva non è la cosa più semplice del mondo…
Ho fatto richiesta all’Azienda Sanitaria, pensando che magari non avrei neanche ricevuto una risposta. Ma invece è capitato che proprio qualche giorno prima della mia mail è circolata una falsa notizia davvero importante e virale. Allora i responsabili sanitari mi hanno detto che volevano provare per vedere cosa sarebbe successo. Fino a quel momento nessuno era entrato in rianimazione per raccontare le storie che stavano succedendo. Prima sono entrato a Merano ma presto mi sono spostato a Bolzano, dove la situazione era molto più grave. Sono arrivato lì e ora sono ancora lì, in pratica.

Questo titolo – Wellenbrecher – da cosa deriva?
Sono entrato in novembre quando c’era appunto una grande ondata. Vedevo i medici e gli infermieri e il grande lavoro che stavano svolgendo cercando di contrastare l’onda, facendo turni pazzeschi. Il lockdown valeva per tutti, ma all’esterno l’ondata non si vedeva. La vedevano e la affrontavano solo loro, in pratica, stando in prima linea. 

E Wellenbrecher sta per frangiflutti, lo stesso compito che svolgono i grandi massi che si trovano appena al largo, al mare, per impedire alle mareggiate di raggiungere il porto e la spiaggia. 
Proprio così.

Com’è stato il tuo incontro con gli operatori sanitari che lavorano in terapia intensiva? 
Loro all’inizio erano perplessi, anche perché io stavo loro molto vicino, come si vede anche dai video che ho fatto. All’inizio sono semplicemente rimasto con loro, chiacchierando, per conoscerli ma anche e soprattutto per farmi conoscere. Nei primi due mesi non ho postato nulla sui social, ho cominciato a farlo solo pian piano, coinvolgendo le persone più adatte e con cui avevo stabilito un rapporto di fiducia. Quando ho cominciato a trascorrere lì le notti con loro, hanno capito cosa stavo davvero facendo.  

Nei miei documentari il messaggio di speranza è davvero fondamentale. Il senso del lockdown è salvare vite.


Com’è stato l’incontro con i malati?
Questa naturalmente è stata la parte più difficile. All’inizio ho solo osservato senza fotografare e senza raccontare. Ho capito che l’unico momento veramente buono per confrontarmi con i pazienti sono gli ultimi giorni in terapia intensiva, prima delle dimissioni dall’ospedale. Lì cominciano a parlare e posso provare ad avvicinarli, spiegando loro cosa sto facendo. Chiedo se posso raccontare la loro storia e, se è possibile, li intervisto. Poi aspetto che escano e mando loro il video, chiedendo se posso pubblicarlo.

Un doppio consenso dunque. Mentre lo si realizza e poi anche a posteriori.
Sì. Chiedo anche di fare vedere il video ai parenti, per avere una conferma davvero definitiva. Alcuni di loro, infatti, al momento hanno voglia di raccontarsi, ma magari poi dopo tre giorni ci ripensano. Ci vuole sicurezza, perché si tratta di cose molto delicate. 

Quindi vengono veicolati due messaggi, in sostanza. In primo luogo che è tutto vero. E poi che anche di questo si può guarire. 
Nei miei documentari il messaggio di speranza è fondamentale. Il senso del lockdown è salvare vite. E si vede che chi ne esce vivo, lo può fare grazie alle misure adottate e alle macchine che alimentano i polmoni con l’ossigeno. 

In Alto Adige c’è ancora una certa fetta di cittadinanza che osserva con scetticismo la pandemia. Molti sono contrari alle vaccinazioni in generale e c’è anche un settore, per fortuna molto limitato, che inveisce contro tutto e contro tutti, negando persino l’esistenza del video. Che idea ti sei fatto in merito, portando avanti il tuo progetto?
Io penso che gli estremisti non li convinci in nessun modo. In ospedale ho visto uno che non credeva nel covid che è stato intubato. Lo hanno salvato e dopo che è uscito ha detto che il covid non esiste e che era influenza. 
Il senso del mio lavoro è parlare con le persone normali, che si pongono delle domande e che normalmente non vedono quello che succede in terapia intensiva. Se possono vedere quello che succede lì, magari capiscono meglio qual è questa realtà. 

Insomma: l’obiettivo è dare degli strumenti in più per consentire alle persone di farsi un’idea oggettiva. Dai social sono arrivati anche degli attacchi d’odio, sulla scia dei post di Wellenbrecher? 
Ho ricevuto tonnellate di questo tipo di messaggi, ma io sono tranquillissimo. Da anni ho un sito di fotografia con milioni di lettori ogni mese e lì ho anche ricevuto minacce di morte. Sono abituato, ormai. Mi fa zero effetto. La loro è una malattia. Quando leggo un commento pieno d’odio mi dispiace per la persona che lo inserisce, perché vuol dire che sta male. 

Quali sono stati i due o tre momenti più emozionanti vissuti in questo periodo? 
Il momento più forte è stato quando uno del mio paese ricoverato in terapia intensiva mi ha riconosciuto. Sono stato l’ultimo a parlargli prima che se ne andasse. Un mese dopo un altro del mio paese voleva dirmi qualcosa ma non ci riusciva, e alla fine ho capito che voleva dire “aria aria”. Gli mancava l’aria. I momenti più belli sono quando i pazienti stanno meglio, all’improvviso, e cominciano a raccontare le loro storie, sono felici, insieme ai loro parenti. è veramente molto bello.

È la travolgente forza della vita. 
Sì, li vedi quasi morire per settimane e poi invece si svegliano, come un fiore di primavera. E tu dici: è pazzesco!

Il progetto va avanti ancora? 
Sì, ora sto facendo una serie di interviste perché il momento è ideale vista la pressione minore sul reparto. Ma spero che presto potrò venire via, perché questa cosa sarà finita. 

Lo speriamo anche noi. 

ANDREA PIZZINI

Nato il 4 ottobre 1977 a Mezzolombardo, Andrea Pizzini è cresciuto a Salorno e si è diplomato alla Scuola di Documentario, Televisione e New Media ZELIG di Bolzano. Dal 2002 al 2011 ha viaggiato il mondo realizzando documentari in zone di guerra, slums e favelas. Nel 2011 ha creato un sito di fotografia che oggi ha 4 milioni di lettori al mese. Dal 2012 fotografa con una camera gigante chiamata “Cube” creata insieme a Christan Martinelli.

Autore: Luca Sticcotti – Direttore del giornale

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