Fethanei e il suo porto

Attualità | 21/4/2022

In questi tempi di brutture e violenze, una gita nell’incontaminata serenità di Vadena e dei suoi antichi tesori riconcilia lo spirito. Nel corso dei millenni, varie popolazioni sono confluite sulla riva destra dell’Adige, un luogo riparato e, nel contempo, aperto come pochi al mondo italico e, sull’altro versante, a quello alpino e gallo-germanico.
Ne furono attratti, per ovvi motivi, anche molti curiosi e studiosi. Tra loro, il bavarese Ludwig Steub, tenace interprete della misteriosa toponomastica retica tuttora prevalente nella nostra terra. Contrariamente all’opinione corrente, che ritrova in “Vadena” il latino “vadum” (guado), suggerì la radice italica ovvero reto-etrusca di “Fethanei”. In effetti, è assai improbabile che una località abitata almeno 1000 anni prima dei Romani abbia atteso tutto quel tempo per dotarsi di un nome – tanto più se si dà retta a quanto scrive, per esempio, Karl M. Mayr nel 1928: “Il popolo culturalmente molto evoluto, che usava seppellire i propri defunti con grande sfarzo presso Stadio, controllava dalle alture boschive di Laimburg l’antichissima via commerciale del varco di Castelchiaro.” Insomma, non erano certo incolti selvaggi gli abitanti di questa regione ma, anche a giudicare dai preziosi reperti rinvenuti nelle tombe, esponenti di raffinate civiltà.
Oggi Vadena è formata da piccoli, a volte minimi agglomerati urbani sparsi su un’ampia striscia di territorio, che dalla stazione di Laives arriva a quella di Ora. Poi una grossa fetta del Monte di Mezzo che si perde nelle acque del Lago di Caldaro in località Klughammer. Se al comune si dovesse dare un colore, sarebbe sicuramente il verde prevalente dei meleti attraversati dalla strada pedemontana per Ora e Caldaro. Ma, come si conviene al suo millenario splendore, è il silenzio il vero nume del luogo, avvolto ma non spezzato dal ronzio di sottofondo dell’autostrada che di là dal fiume taglia in due questa singolare terra basso-atesina.
Il centro di Vadena non dà cenni di vita, domenica mattina, e poco oltre anche l’abitato di Birti con il suo campanile solitario e la combinazione di costruzioni vecchie e nuove sembra immerso nell’oblio della storia. Dopo qualche chilometro, il Monte di Mezzo forma un’ansa occupata quasi interamente dal centro di Laimburg. Un tempo la strada ci passava proprio davanti ma oggi per entrare dobbiamo raggiungere il bivio per Caldaro e poi risalire verso nord.
Spiccano nel sole del mattino le rocce di porfido rosso-brunastro tra le colline moreniche ed è inevitabile rievocare le parole scritte da Giovanni Oberziner nel 1883: “Sulla sommità del colle era una grande pietra quadrata, circondata da coltelli, cilindri d’argilla, e rottami di vasi, e credo che non abbia torto chi supponga, che questo sia stato l’altare dove si scannavano le vittime, e forse lì appresso s’innalzasse il rogo per abbruciare i cadaveri dei trapassati”. Nel piazzale circondato dagli edifici del centro sperimentale non c’è nessuno, la scuola agraria è chiusa. Ci possiamo aggirare indisturbati in cerca di segni e impressioni di un passato ampiamente noto e documentato da quasi due secoli.
Al ritorno, imbocchiamo il passaggio che sotto l’autostrada conduce all’Adige. Superato il terrapieno dell’argine, scendiamo fino a riva. Una piccola insenatura e grossi massi tra la spoglia vegetazione primaverile ci riportano ai tempi in cui qui, o poco distante da qui, attraccavano e poi partivano le colorate imbarcazioni colme di mercanzie alla volta delle maggiori città retiche, euganee e venete fino alle sponde dell’Adriatico.

Autore: Reinhard Christanell

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